Manifesto laico
Sul conflitto israelo-palestinese, ancora irrisolto
Il persistere del conflitto asimmetrico tra le forze militari israeliane e i gruppi armati palestinesi ci porta a esporre alcune considerazioni sulle cause degli eventi in corso. L’opinione pubblica si accorge di questo irrisolto problema soltanto nel momento in cui si presentano gravissimi episodi di eccidio, tuttavia, al fine di proporre una soluzione al problema pluridecennale, è necessario valutare quali siano le cause del fenomeno.
Da parte israeliana, la principale causa di maggiore responsabilità è il conflitto economico.
Le guerre, anche quelle asimmetriche, esistono principalmente per denaro, e il neoliberismo attualmente dominante si nutre di conflitti armati per perseguire i propri progetti di espansione.
L’utilizzo dell’esercito israeliano nei conflitti contro civili è indice dell’interesse economico di gruppi finanziari neoliberisti nell’appropriazione dei territori attualmente denominati Cisgiordania e Striscia di Gaza.
La doppia valenza di attacco all’esistenza e alla dignità del popolo palestinese passa anche attraverso l’organizzazione, la tutela e l’incentivo dei cosiddetti “coloni ebrei”, che spinti dall’ottusità fondamentalista religiosa, si prestano agli interessi delle lobby finanziarie per conquistare la propria sistemazione edilizia, ma rischiando in prima fila, al fronte, nelle battaglie contro i resistenti palestinesi.
Da ciò si deduce che la propaganda sionista è necessaria a motivare le azioni di colonizzazione da parte dei fondamentalisti ebrei, certamente sensibili alle interpretazioni religiose del conflitto.
L’organizzazione neoliberista si riferisce politicamente a destra, ancor meglio alla destra nazionale, e ne è di prova il fatto che ogni volta vinca la sinistra socialista alle politiche israeliane, il conflitto si distende, almeno da questa parte, infatti ciò accade perché vengono a mancare gli appoggi politici alle faccende finanziarie di chi foraggia i propri interessi tramite il funzionamento delle istituzioni: sfruttare lo Stato e i concittadini per i propri interessi è il metodo principale del neoliberismo.
Da parte palestinese, in un clima di arretratezza economica, legislativa e culturale, è dominante la propaganda fondamentalista islamica, che in questo territorio come altrove in Medioriente, cerca di sfruttare le condizioni di disagio sociale per trovare manodopera irrazionalmente impavida.
Il mezzo del fondamentalismo islamico, per raggiungere lo scopo, è il coinvolgimento delle masse disperate, che prestano il proprio contributo a mani nude e con le pietre, immolando i propri figli per una causa idealizzata che a stento riesce a rimanere coerente con le necessità quotidiane di riscatto economico e civile.
I gruppi fondamentalisti islamici utilizzano lo strumento della propaganda nazionalista e confessionale per raccogliere consensi che siano di mera partecipazione bellica, noncuranti della necessità di fornire un progetto politico alla resistenza, e di garantire innanzitutto la sopravvivenza e l’incolumità del “loro popolo”.
Anche da parte dell’organizzazione combattiva palestinese lo scopo finale è l’egemonia economica di una minoranza della cittadinanza sulla maggioranza. Esistono accuse contro il governo palestinese, delle quali si ha notizia, sulle responsabilità di accordi di questo con i gruppi islamici, e l’aspetto più evidente del vantaggio economico di un accordo di tale specie sta nella formazione di una élite che poggia il proprio privilegio su uno sfruttamento sociale che impoverisce progressivamente anche la maturazione politica della società del luogo.
Il persistente conflitto tra le parti si trascina dal 1948 in seguito alla creazione "a tavolino", da parte della diplomazia internazionale, di uno stato basato su un concetto di esclusività di appartenenza spesso spodestando, in violazione dei loro diritti, masse di popolazione precedentemente abitanti le aree geografiche interessate.
Pratica che, come si è detto, prosegue ad oggi.
Queste ragioni storiche non possono essere ignorate come base originaria di un conflitto che ha in seguito assunto anche le valenze descritte sopra.
Se esse non possono essere oggi realisticamente assunte come pretesto per mettere in discussione, dopo settant'anni, la legittimità dell'esistenza dello stato di Israele, di certo vanno tenute in debito conto nello scenario complessivo dell'analisi del fenomeno conflittuale e della proposizione delle possibili soluzioni.
La disparità fra i due soggetti non è solo quantitativa, ovvero residente nell'efficienza e modernità delle istituzione civili e militari israeliane rispetto alle difficoltà in cui versano le istituzioni di parte palestinese, ma anche qualitativa nella misura in cui vede da una parte il diretto coinvolgimento degli apparati statali e dell'esercito, e dall'altra una eterogeneità di gruppi all'interno della quale vanno fatte le opportune differenziazioni fra popolazione civile, istituzioni dell'autonomia palestinese e fazioni clandestine che non possono essere considerate rappresentative della popolazione medesima.
Questa disparità avrebbe dovuto e potuto tradursi in un ruolo di leadership di Israele nella piena realizzazione del processo di pace, ciò che in passato si è tentato di fare ma che poi le amministrazioni governative di destra non hanno consentito di portare a termine. Le stesse che hanno invece preferito adottare metodi coercitivi ricorrendo all'uso di una macchina militare molto ben equipaggiata ed evoluta che ha assunto sempre più la fisionomia di un esercito di occupazione spesso a danno non già delle fazioni clandestine, contro le quali l'uso della forza è legittimo, ma ai danni dell'inerme popolazioni civile.
Né le risoluzioni dell’ONU, né i vari deboli interessamenti della politica estera degli stati europei sono riusciti a incidere minimamente sulle dinamiche dei contrasti asimmetrici delle forze in campo.
Il neoliberismo israeliano si dimostra nettamente più organizzato e potente della controparte palestinese, e con l’appoggio determinante dei governi degli Stati Uniti d’America, agisce in violazione delle pur esigue restrizioni formulate in sede di consiglio internazionale.
La debolezza degli stati europei nel campo dell'intermediazione tra le parti palesa gli interessi finanziari che di volta in volta si intrecciano con lo stato israeliano.
Intanto il conflitto armato pluridecennale falcidia la gente palestinese, che di ragione, nel conflitto in corso, si può e si deve considerare la parte lesa dal colonialismo neoliberista.
Lo è perché rivendica il diritto di riappropriarsi delle terre strappatele, e perché si trova a dover contrastare da sola le invasioni ripetute di una nazione fortemente militarizzata, perciò non vi potrà mai essere giustizia effettiva e soluzione definitiva al conflitto finché queste persone non avranno raggiunto la possibilità di tornare a vivere nel territorio da cui provengono.
Le trasformazioni dei confini di una nazione non possono essere forzature, e questo conflitto mostra che le conseguenze del malcontento, di chi ha subito danni dall’espropriazione delle terre, sanno protrarsi nel tempo per decenni, senza trovare attenuazione.
Ma se la parte palestinese è vittima, non si può e non si deve, allo stato attuale delle cose, negare le trasformazioni compiute nell’attuale nazione israeliana. Se questa repubblica confessionale e sionista è funzionale da decenni ai raggiri neoliberisti, non è la cittadinanza comune israeliana che deve subirne le conseguenze.
Chi sfuggendo dalla più orrenda carneficina nazista della Seconda Guerra Mondiale e chi recentemente per trovare una nuova opportunità di vita, si sono formate le basi di uno stato che, almeno nelle intenzioni dichiarate formalmente, è democratico e multirazziale. Pertanto non è giusto e non è fattibile cacciare i cittadini israeliani dal loro territorio, quando ciò significherebbe distruggere una condizione già avviata e stabilizzata, una ricchezza che potrebbe essere il punto di partenza per la rinascita collettiva delle due parti attualmente contrapposte.
UNA SOLUZIONE POSSIBILE:
Il partito politico Democrazia Atea propone, come possibile soluzione del conflitto israelopalestinese, un unico stato che includa i territori attualmente divisi nelle nazioni di Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza.
Uno stato sovrano e democratico, costituzionale, laico, repubblicano e di ispirazione socialista, dove ogni cittadino con pari diritti può vivere in qualsiasi zona del Paese, non avendo alcuna limitazione nella libertà di residenza e domicilio.
Uno stato che non si chiami né Israele, né Palestina, che risulti totalmente neutro alle contaminazioni confessionali, non mostrando riferimenti a divinità, profeti, dottrine e simboli religiosi, né nella costituzione, né nella bandiera.
Lo stato ateo solamente può garantire l’equidistanza politica necessaria affinché il parlamento della repubblica sia immune da derive confessionali che potrebbero nuovamente ripresentarsi come pretesti in mano alle organizzazioni neoliberiste, perché lo stato ateo è garanzia del rispetto della laicità nel fondamentale confronto politico legislativo.
Se i fanatismi religiosi dell’una e dell’altra parte sono pretesti in mano agli interessi economici di pochi su molti, la laicità dello stato è necessaria per spuntare le armi della falsa propaganda. Il socialismo è storicamente l’unica soluzione applicabile contro lo sbilanciamento dei poteri finanziari e dei privilegi esclusivi, e l’unico paradigma politico in grado di garantire pari diritti e pari opportunità a ogni cittadino. Nel contesto di una nazione unica già fondata, garantire la mancanza dell’offesa neoliberista sarà compito del dibattito politico maturo e democratico, e la costruzione di regole economiche socialiste, dove il pubblico è di tutti e senza distinzioni, e il privato si regge da solo.
La soluzione dei due stati indipendenti proposta da chi condivisibilmente spera nella fine del conflitto, appare non essere duratura, infatti con la loro costituzione non verranno a risolversi le rivendicazioni territoriali tra le due parti, che sono i combustibili delle propagande religiose dell’odierno conflitto.
Si passerà dunque da una guerra asimmetrica di un esercito contro civili, a guerre militari tra due nazioni confessionali.
L’esistenza di una nazione unificata, laica, democratica, costituzionale e repubblicana, sarebbe un esempio di integrazione e di convivenza per l’intero Medioriente, e soprattutto l’evidenza di come i paradigmi politici aconfessionali riescano a fornire le basi di uno sviluppo civico, in senso della libertà dell’individuo e del progresso culturale, decisamente più evoluto dei medievali e obsoleti stati confessionali, spesso di ispirazione islamica, in questa parte del mondo.
L’Assemblea degli iscritti di Democrazia Atea
Roma, 15 aprile 2018
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