ANNIENTAMENTO
02-09-2021 11:19 - Giuseppe Guerrera
“Entrano senza conoscersi, vivono senza amarsi, muoiono senza rimpiangersi” e in questo tristissimo motto si racchiude la sintesi narrativa di una categoria di persone cui la società rivolge sovente disprezzo, oppure astio, ma anche compassione, ovvero le suore, il prodotto del patriarcato più distante dall’emancipazione.
Sono donne che hanno negato la propria individualità, vittime di un sistema che le ha indotte alla inutilità soggettiva, forgiate a credere che il senso della propria identità si basi falsamente sull’accondiscendenza ai bisogni degli altri, ai desideri altrui invece che ai propri.
Le suore sono espressione seriale di quella che è, a tutti gli effetti, una patologia psichiatrica, ovvero il “falso sé”.
Il “falso sé” si manifesta quando non c’è semplicemente una acquiescenza al volere altrui, ma ci si identifica con quel volere.
Ci si forgia negando una propria dimensione autonoma, ponendo i giudizi altrui quale unico riferimento del proprio agire, negando a sé stesse ogni forma di desiderio, ogni aspirazione, ed ogni azione quotidiana va nella direzione dell’annullamento.
Così le suore assumono l’identità del gruppo che le ingabbia, con una varietà di nomi impressionante: adoratrici, ancelle, apostole, canonichesse, clarisse mercedarie, misericordine, marcelline, oblate, piccole serve, sacramentine, passioniste, crocifisse, predilette, poverelle, trinitarie….
Tanti nomi diversi per qualificare la stessa tipologia di vittime, quelle a cui è tolta ogni soggettività.
Nella presa di coscienza della subordinazione femminile nelle società patriarcali, non si può trascurare che queste donne sono vittime ignare del clericalismo più subdolo, sono vittime di una organizzazione maschile e misogina a cui si subordinano con entusiastico servilismo.
E da sempre costituiscono harem stuprabile ad uso esclusivo del clero.
Sono il simbolo supremo della subordinazione al mondo maschile, che le usa e ne abusa, in nome dello stesso dio.
Il monachesimo forzato dei secoli scorsi, quando i padri obbligavano le figlie alla vita monastica, non è equiparabile al monachesimo odierno nel quale vi è una adesione, benché patologica, alla negazione del sé.
Annullare la propria identità e soggettività in ossequio ad una subordinazione patriarcale, resta una forma di violenza, e va qualificata per ciò che è.
Non hanno disponibilità economiche, se straniere hanno paura di essere rispedite nei Paesi d’origine, e se dopo lo stupro restano incinte, sovente vengono cacciate dai conventi e abbandonate senza che nessuno si occupi né di loro né della prole.
Solamente quelle che ricoprono ruoli dirigenziali all’interno delle singole strutture conventuali, possono dire di esercitare una forma di potere, per quanto, il più delle volte, circoscritto solamente alla propria organizzazione, dal momento che a loro è rigidamente negata ogni forma di accesso alle gerarchie cattoliche che sono prerogativa esclusivamente dei maschi.
Dunque ad eccezione delle suore in posizione apicale, generalmente un paio per ogni convento, tutte le altre non hanno altre prospettive che il perenne annientamento, ad onta dell’immaginario collettivo alimentato da letteratura e filmografia benevola.
Sono donne che hanno negato la propria individualità, vittime di un sistema che le ha indotte alla inutilità soggettiva, forgiate a credere che il senso della propria identità si basi falsamente sull’accondiscendenza ai bisogni degli altri, ai desideri altrui invece che ai propri.
Le suore sono espressione seriale di quella che è, a tutti gli effetti, una patologia psichiatrica, ovvero il “falso sé”.
Il “falso sé” si manifesta quando non c’è semplicemente una acquiescenza al volere altrui, ma ci si identifica con quel volere.
Ci si forgia negando una propria dimensione autonoma, ponendo i giudizi altrui quale unico riferimento del proprio agire, negando a sé stesse ogni forma di desiderio, ogni aspirazione, ed ogni azione quotidiana va nella direzione dell’annullamento.
Così le suore assumono l’identità del gruppo che le ingabbia, con una varietà di nomi impressionante: adoratrici, ancelle, apostole, canonichesse, clarisse mercedarie, misericordine, marcelline, oblate, piccole serve, sacramentine, passioniste, crocifisse, predilette, poverelle, trinitarie….
Tanti nomi diversi per qualificare la stessa tipologia di vittime, quelle a cui è tolta ogni soggettività.
Nella presa di coscienza della subordinazione femminile nelle società patriarcali, non si può trascurare che queste donne sono vittime ignare del clericalismo più subdolo, sono vittime di una organizzazione maschile e misogina a cui si subordinano con entusiastico servilismo.
E da sempre costituiscono harem stuprabile ad uso esclusivo del clero.
Sono il simbolo supremo della subordinazione al mondo maschile, che le usa e ne abusa, in nome dello stesso dio.
Il monachesimo forzato dei secoli scorsi, quando i padri obbligavano le figlie alla vita monastica, non è equiparabile al monachesimo odierno nel quale vi è una adesione, benché patologica, alla negazione del sé.
Annullare la propria identità e soggettività in ossequio ad una subordinazione patriarcale, resta una forma di violenza, e va qualificata per ciò che è.
Non hanno disponibilità economiche, se straniere hanno paura di essere rispedite nei Paesi d’origine, e se dopo lo stupro restano incinte, sovente vengono cacciate dai conventi e abbandonate senza che nessuno si occupi né di loro né della prole.
Solamente quelle che ricoprono ruoli dirigenziali all’interno delle singole strutture conventuali, possono dire di esercitare una forma di potere, per quanto, il più delle volte, circoscritto solamente alla propria organizzazione, dal momento che a loro è rigidamente negata ogni forma di accesso alle gerarchie cattoliche che sono prerogativa esclusivamente dei maschi.
Dunque ad eccezione delle suore in posizione apicale, generalmente un paio per ogni convento, tutte le altre non hanno altre prospettive che il perenne annientamento, ad onta dell’immaginario collettivo alimentato da letteratura e filmografia benevola.