Commento di Carla Corsetti
16-09-2021 14:08 - Redazione DA
Nessun insegnante sarà più obbligato a esporre in aula il crocifisso, la scuola decida in autonomia ma senza obbligo. È questa in sintesi la sentenza per certi versi storica che le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno depositato il 9 settembre scorso in merito alla sospensione avvenuta nel 2015 del professore Franco Coppoli per aver appunto smurato dalla sua aula il simbolo religioso dei cattolici. Una sentenza che ha reso una prospettiva poliedrica, con più facce per ogni specchio che le riflette, ma con un nucleo centrale che nessuno potrà più disattendere. E di cui ora parleremo.
Prima però di entrare nel merito vale la pena segnalare una curiosità che si è consumata attorno al quotidiano l’Avvenire, organo di stampa della Conferenza episcopale, che ha pubblicato un commento lasciando intendere di conoscere il contenuto della sentenza già dal giorno 8 settembre, mentre la sentenza è stata pubblicata il 9 settembre.
Ma questi restano misteri cattolici a cui nessuno dà più seguito ormai dal 1929.
Torniamo alla sentenza. La cassazione ha dato una definitiva vittoria al ricorrente, Franco Coppoli, un professore sanzionato dal suo dirigente scolastico per essersi opposto all’affissione del crocifisso nell’aula ove insegnava, e questo è sicuramente un passaggio significativo che premia non solo la pazienza con la quale il professore ha lottato per vedere affermato un diritto umano universale, ma premia anche l’Uaar-Unione degli atei e degli agnostici razionalisti, che lo ha accompagnato e sostenuto in questa vicenda che resta comunque paradossale.
Non è a discutersi il punto di civiltà insito nell’esito favorevole al ricorrente, come pure si tira un sospiro di sollievo davanti alla affermazione, finalmente pronunciata, che non si potrà più consentire a nessun dirigente scolastico di imporre il crocifisso ad alunni ed insegnanti.
Sorte diversa era stata subita invece dal giudice Luigi Tosti quando la Cassazione aveva ritenuto legittima la sua rimozione dalla magistratura perché si era rifiutato di tenere udienza in un’aula ghetto, allestita appositamente per lui, priva di simboli, perché in questa soluzione, che evidentemente la Corte continua a ritenere «accomodante» e dunque legittima, non era stata colta la potente carica discriminatoria che consentiva l’allestimento di aule per cattolici e aule per atei, le quali rimandavano, nella memoria, agli autobus per i bianchi e agli autobus per i neri.
Da una attenta lettura della sentenza (vedi pdf a fine articolo, ndr) sembra dedursi che gli Ermellini, chiamati a decidere sulla obbligatorietà del crocifisso, non avessero alcuna intenzione di ledere l’indiscutibile influenza che sulla questione ha da sempre esercitato lo Stato teocratico extracomunitario confinante, e questo emerge prepotentemente da alcune affermazioni che non hanno fondamento giuridico ma che vengono rese per ricordare cosa significhi questo simbolo per i credenti, «a uffa» come direbbe il Belli nei suoi sonetti quando voleva indicare i benefici che il clero riceve(va) gratuitamente.
Ciononostante la Corte non ha potuto sottrarsi ad una affermazione di diritto semplice, ovvero che un simbolo religioso non può essere addobbato nei luoghi pubblici in via autoritativa.
Prima di assumere questa decisione, i consiglieri della Corte, si sono avvalsi della struttura di formazione decentrata della Corte di Cassazione che ha organizzato un convegno ad aprile, chiedendo a magistrati e professori di esprimere un pare di cui le Sezioni unite avrebbero tenuto conto.
E in effetti c’è un passaggio nella sentenza che dà conto della acquisizione di questi pareri che rendono la pronuncia non più espressione di interpretazione in diritto ma «accomodamento» rispetto ad esigenze ulteriori, e per le quali la Corte rivendica di svolgere il proprio ruolo con una «prudenza mite».
Il passaggio della «prudenza mite», più volte richiamata dalla Corte, è preoccupante perché se per un verso si qualifica come dinamica di equilibrio, dall’altra lascia margine al timore che potrà strumentalmente essere richiamato per altri simboli religiosi o per altri «accomodamenti», la cui prepotente imposizione che vige in altri Stati non tarderà ad affacciarsi anche nel nostro, visto il servilismo di cui si sono già resi protagonisti i nostri politici quando, ad esempio, per «prudenza mite» hanno coperto le nostre statue per tutelare i limiti di chi non apprezzava i nudi artistici.
C’è da chiedersi, a questo punto, quando tempo passerà prima che la «prudenza mite» possa costituire parametro guida per trovare un «accomodamento» ad esempio in tema di diritto familiare con la «sharia».
A tutto voler concedere le soluzioni di equilibrio e le mediazioni sono auspicabili quando vi sono in contrapposizione diritti soggettivi, quando c’è una contesa tra due persone, e quindi è encomiabile e pregevole che la magistratura trovi un punto di mediazione.
Ciò non può parimenti dirsi per i diritti umani, per i diritti costituzionali, per i diritti universali.
Non ci sono, in questo caso, posizioni in mediazione, non ci sono accomodamenti.
I diritti di rango superiore si affermano o si negano, e le soluzioni «a metà», le soluzioni che privilegiano le mediazioni, gli accomodamenti, le prudenze miti, rischiano di rendere quegli stessi diritti evanescenti perché li mantengono controversi.
Una mediazione su un diritto universale si traduce nel suo affievolimento posto che un diritto primario, per quanto riconosciuto nella sua teorizzazione, se non trova piena attuazione, ma trova una attuazione mediata, diventa un diritto «azzoppato».
La sentenza delle Sezioni Unite per un verso afferma perentoriamente principi assoluti, ma poi cerca di dare un contentino a chi quei diritti assoluti proprio non riesce a digerirli.
Si coglie con assoluto favore l’affermazione, ripetuta in sentenza, secondo la quale «Il crocifisso è un simbolo religioso e la sua esposizione obbligatoria in un’aula scolastica viola il principio di laicità», ed ancora la Corte afferma che «lo spazio pubblico non può essere occupato da una sola fede religiosa, ancorché maggioritaria», e merita altresì particolare menzione un ulteriore passaggio della sentenza quando afferma che «La libertà religiosa negativa merita la stessa tutela e la stessa protezione della libertà religiosa positiva» escludendo che possano esserci differenze nella tutela dell’ateismo rispetto alle fedi religiose.
Aggiunge la Corte che la nostra Costituzione «esclude che il crocifisso possa essere un simbolo identificativo della Repubblica italiana» e che «l’esposizione del crocifisso non è più un atto dovuto, non essendone costituzionalmente consentito imporne la presenza».
Ma poi, quasi facendo un passo indietro dopo aver fatto un passo avanti, la Corte si dilunga in una interpretazione «evolutiva» della norma e arriva a dire che pur non potendo esserci alcun obbligo di esporre il crocifisso, tuttavia rimane una libera facoltà la cui decisione è rimandata alle singole classi a patto che la richiesta arrivi dagli studenti e non escluda l’esposizione di altri simboli.
Con fervida immaginazione già ci prefiguriamo l’assemblea dei bambini di prima elementare mentre discutono con quali simboli religiosi potranno riempire le pareti delle loro aule, nel perimetro di una discussione interreligiosa e interculturale, cercando un accomodamento ragionevole in presenza di sensibilità plurali, nel mentre imparano l’alfabeto e a contare.
A tratti è sembrato di leggere non una sentenza della Cassazione, ma una circolare con raccomandazione emanata dall’Ucas: Ufficio complicazioni degli affari semplici.
Epurando la sentenza dalle argomentazioni sugli accomodamenti, resta un principio semplice sul quale Democrazia atea si è espressa coerentemente da sempre: «L’esposizione autoritativa del crocifisso nelle aule scolastiche non è compatibile con il principio supremo di laicità dello Stato. L’obbligo di esporre il crocifisso è espressione di una scelta confessionale. La religione cattolica costituiva un fattore di unità della nazione per il fascismo ma nella democrazia costituzionale l’identificazione dello Stato con una religione non è più consentita».
E ora i crocifissi non potranno più restare negli uffici pubblici, e sarà bene che i dirigenti scolastici, ma anche i presidenti dei tribunali, diano disposizioni per cominciare a smurarli.
Fonte: LEFT
Prima però di entrare nel merito vale la pena segnalare una curiosità che si è consumata attorno al quotidiano l’Avvenire, organo di stampa della Conferenza episcopale, che ha pubblicato un commento lasciando intendere di conoscere il contenuto della sentenza già dal giorno 8 settembre, mentre la sentenza è stata pubblicata il 9 settembre.
Ma questi restano misteri cattolici a cui nessuno dà più seguito ormai dal 1929.
Torniamo alla sentenza. La cassazione ha dato una definitiva vittoria al ricorrente, Franco Coppoli, un professore sanzionato dal suo dirigente scolastico per essersi opposto all’affissione del crocifisso nell’aula ove insegnava, e questo è sicuramente un passaggio significativo che premia non solo la pazienza con la quale il professore ha lottato per vedere affermato un diritto umano universale, ma premia anche l’Uaar-Unione degli atei e degli agnostici razionalisti, che lo ha accompagnato e sostenuto in questa vicenda che resta comunque paradossale.
Non è a discutersi il punto di civiltà insito nell’esito favorevole al ricorrente, come pure si tira un sospiro di sollievo davanti alla affermazione, finalmente pronunciata, che non si potrà più consentire a nessun dirigente scolastico di imporre il crocifisso ad alunni ed insegnanti.
Sorte diversa era stata subita invece dal giudice Luigi Tosti quando la Cassazione aveva ritenuto legittima la sua rimozione dalla magistratura perché si era rifiutato di tenere udienza in un’aula ghetto, allestita appositamente per lui, priva di simboli, perché in questa soluzione, che evidentemente la Corte continua a ritenere «accomodante» e dunque legittima, non era stata colta la potente carica discriminatoria che consentiva l’allestimento di aule per cattolici e aule per atei, le quali rimandavano, nella memoria, agli autobus per i bianchi e agli autobus per i neri.
Da una attenta lettura della sentenza (vedi pdf a fine articolo, ndr) sembra dedursi che gli Ermellini, chiamati a decidere sulla obbligatorietà del crocifisso, non avessero alcuna intenzione di ledere l’indiscutibile influenza che sulla questione ha da sempre esercitato lo Stato teocratico extracomunitario confinante, e questo emerge prepotentemente da alcune affermazioni che non hanno fondamento giuridico ma che vengono rese per ricordare cosa significhi questo simbolo per i credenti, «a uffa» come direbbe il Belli nei suoi sonetti quando voleva indicare i benefici che il clero riceve(va) gratuitamente.
Ciononostante la Corte non ha potuto sottrarsi ad una affermazione di diritto semplice, ovvero che un simbolo religioso non può essere addobbato nei luoghi pubblici in via autoritativa.
Prima di assumere questa decisione, i consiglieri della Corte, si sono avvalsi della struttura di formazione decentrata della Corte di Cassazione che ha organizzato un convegno ad aprile, chiedendo a magistrati e professori di esprimere un pare di cui le Sezioni unite avrebbero tenuto conto.
E in effetti c’è un passaggio nella sentenza che dà conto della acquisizione di questi pareri che rendono la pronuncia non più espressione di interpretazione in diritto ma «accomodamento» rispetto ad esigenze ulteriori, e per le quali la Corte rivendica di svolgere il proprio ruolo con una «prudenza mite».
Il passaggio della «prudenza mite», più volte richiamata dalla Corte, è preoccupante perché se per un verso si qualifica come dinamica di equilibrio, dall’altra lascia margine al timore che potrà strumentalmente essere richiamato per altri simboli religiosi o per altri «accomodamenti», la cui prepotente imposizione che vige in altri Stati non tarderà ad affacciarsi anche nel nostro, visto il servilismo di cui si sono già resi protagonisti i nostri politici quando, ad esempio, per «prudenza mite» hanno coperto le nostre statue per tutelare i limiti di chi non apprezzava i nudi artistici.
C’è da chiedersi, a questo punto, quando tempo passerà prima che la «prudenza mite» possa costituire parametro guida per trovare un «accomodamento» ad esempio in tema di diritto familiare con la «sharia».
A tutto voler concedere le soluzioni di equilibrio e le mediazioni sono auspicabili quando vi sono in contrapposizione diritti soggettivi, quando c’è una contesa tra due persone, e quindi è encomiabile e pregevole che la magistratura trovi un punto di mediazione.
Ciò non può parimenti dirsi per i diritti umani, per i diritti costituzionali, per i diritti universali.
Non ci sono, in questo caso, posizioni in mediazione, non ci sono accomodamenti.
I diritti di rango superiore si affermano o si negano, e le soluzioni «a metà», le soluzioni che privilegiano le mediazioni, gli accomodamenti, le prudenze miti, rischiano di rendere quegli stessi diritti evanescenti perché li mantengono controversi.
Una mediazione su un diritto universale si traduce nel suo affievolimento posto che un diritto primario, per quanto riconosciuto nella sua teorizzazione, se non trova piena attuazione, ma trova una attuazione mediata, diventa un diritto «azzoppato».
La sentenza delle Sezioni Unite per un verso afferma perentoriamente principi assoluti, ma poi cerca di dare un contentino a chi quei diritti assoluti proprio non riesce a digerirli.
Si coglie con assoluto favore l’affermazione, ripetuta in sentenza, secondo la quale «Il crocifisso è un simbolo religioso e la sua esposizione obbligatoria in un’aula scolastica viola il principio di laicità», ed ancora la Corte afferma che «lo spazio pubblico non può essere occupato da una sola fede religiosa, ancorché maggioritaria», e merita altresì particolare menzione un ulteriore passaggio della sentenza quando afferma che «La libertà religiosa negativa merita la stessa tutela e la stessa protezione della libertà religiosa positiva» escludendo che possano esserci differenze nella tutela dell’ateismo rispetto alle fedi religiose.
Aggiunge la Corte che la nostra Costituzione «esclude che il crocifisso possa essere un simbolo identificativo della Repubblica italiana» e che «l’esposizione del crocifisso non è più un atto dovuto, non essendone costituzionalmente consentito imporne la presenza».
Ma poi, quasi facendo un passo indietro dopo aver fatto un passo avanti, la Corte si dilunga in una interpretazione «evolutiva» della norma e arriva a dire che pur non potendo esserci alcun obbligo di esporre il crocifisso, tuttavia rimane una libera facoltà la cui decisione è rimandata alle singole classi a patto che la richiesta arrivi dagli studenti e non escluda l’esposizione di altri simboli.
Con fervida immaginazione già ci prefiguriamo l’assemblea dei bambini di prima elementare mentre discutono con quali simboli religiosi potranno riempire le pareti delle loro aule, nel perimetro di una discussione interreligiosa e interculturale, cercando un accomodamento ragionevole in presenza di sensibilità plurali, nel mentre imparano l’alfabeto e a contare.
A tratti è sembrato di leggere non una sentenza della Cassazione, ma una circolare con raccomandazione emanata dall’Ucas: Ufficio complicazioni degli affari semplici.
Epurando la sentenza dalle argomentazioni sugli accomodamenti, resta un principio semplice sul quale Democrazia atea si è espressa coerentemente da sempre: «L’esposizione autoritativa del crocifisso nelle aule scolastiche non è compatibile con il principio supremo di laicità dello Stato. L’obbligo di esporre il crocifisso è espressione di una scelta confessionale. La religione cattolica costituiva un fattore di unità della nazione per il fascismo ma nella democrazia costituzionale l’identificazione dello Stato con una religione non è più consentita».
E ora i crocifissi non potranno più restare negli uffici pubblici, e sarà bene che i dirigenti scolastici, ma anche i presidenti dei tribunali, diano disposizioni per cominciare a smurarli.
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Fonte: LEFT